sabato 28 marzo 2009

Mother Russia by train


L’impero si svela agli occhi dei viaggiatori attraverso piazza Komsomol a Mosca. Tre stazioni e l’immancabile statua di Lenin a un lato della piazza. Da qui partono le direttrici ferroviarie per tutta la Russia. Un crocevia di musica a tutto volume, personaggi poco raccomandabili e il sogno della periferia dimenticata nel profondo della steppa. Per assaggiare la desolante grandezza della Russia, il punto di partenza è questo, che i russi chiamano semplicemente “Tre stazioni”. Sotto gli occhi vigili di quel Lenin che, imbalsamato nella memoria, vigila sugli spostamenti dei figli della patria, uzbeki, tagiki e ucraini offrono agli avventori il meglio del peggio del kitsch post sovietico. Paccottiglia dell’armata rossa e cappelli di pelliccia sono ormai tesori dimenticati: il business si fa a suon di cd pirata e fiori avvolti nel cellophan. Tre Stazioni è una babele dentro la capitale, non a caso qualsiasi guida turistica ne sconsiglia la frequentazione dopo il tramonto. Come fa notare lo scrittore Martin Cruz Smith, anche la statua di Lenin sembra aver capito che aria tira a Komsomol. Mentre con la mano sinistra si tiene il bavero del cappotto, con la destra si tocca il retro dei pantaloni, come se avesse appena realizzato che il suo portafogli è sparito.

Kazanskaja a sud, Leningradskaja e Jaroslavskaja sul lato nord: sono queste le stazioni di Komsomol. Per i turisti europei in cerca di “avventura”, un buon punto di partenza è Leningradskaja che offre collegamenti giornalieri per San Pietroburgo, un itinerario classico, ma che in treno può diventare più emozionante di quanto non lo sia già. Zaino in spalla e un biglietto per il treno notte da 50 $ sono i requisiti fondamentali, il resto lo fa il fascino della gloriosa ferrovia sovietica. Un fascino che non delude. Il treno sembra interminabile, un tubo metallico che ingoia passeggeri silenziosi e ordinati. Difficile, se non impossibile, è trovare turisti nelle carrozze di seconda o terza classe, qui il rigore e la parsimonia sono tipicamente russe. Nella penombra delle luci soffuse, ognuno prende posto sui sedili. Non ci sono compartimenti chiusi da porte, ma un continuo susseguirsi di sedili raccolti a sei a sei separati da tavolini. 22, 30 il treno si mette in moto.

Il primo pensiero è mettere al sicuro i propri tesori di viaggio: portafogli, denaro e documenti. Ben presto però la preoccupazione cambia. L’aria si fa irrespirabile, un caldo torrido avvolge tutti passeggeri. I finestrini sono piccoli come oblò e non si aprono: basta un’ora di viaggio e nessuno si formalizza se si passeggia per il vagone in mutande e ciabatte. Lentamente i passeggeri iniziano a consumare la loro cena. Sono scene di un mondo che in Italia non esiste più. Una coppietta di sposini rientra dal viaggio di nozze a Mosca, con loro c’è anche la mamma della sposa. È difficile comunicare, tra i sedili nessuno parla inglese. Lui, a torso nudo, affetta i pomodori, mentre la moglie prepara i panini e la suocera apparecchia il tavolino da viaggio con tovaglia e stoviglie. Si tratta di una dignità popolare che Mosca pare aver cancellato bruscamente con le sue auto di lusso e i locali notturni sfarzosi dei magnati del gas. Ci sono anche due ragazze. Una che si isola con una bottiglia di birra nel silenzio del proprio lettore mp3, e una che incuriosita mi osserva prendere appunti sul mio diario di viaggio. Non una parola, basta incrociare i suoi occhi inavvertitamente durante la scrittura, ed ecco che pare scusarsi dell’intromissione arrossendo in un sorriso. Nel vagone vige un tacito assenso e, senza un avviso, tutti iniziano a smontare i sedili per ricavare le cuccette per la notte. Le lenzuola sono fornite dal capotreno in sacchetti. In men che non si dica il treno si trasforma nel dormitorio di un sommergibile. Più che sulle rotaie attraverso la pianura russa, si può dire di essere stati a bordo del Kursk. Il tempo e lo spazio si fermano, le luci vengono spente e l’unico compagno di viaggio con cui dialogare è il caldo. Come se non bastasse, in testa a ogni vagone c’è un boiler alimentato dal capotreno con fogli di giornale: serve a procurare l’acqua calda per farsi un caffè. Solo un russo può pensare di bere un caffè bollente in questo vagone incandescente. Il capotreno è l’unico che ogni tanto esce dal suo gabbiotto e cammina lungo il corridoio tra piedi a penzoloni e bocche spalancate nel sonno. Chiuso nell’austerità della sua divisa bianca, con tanto di piatta d’ordinanza, finge che il caldo non sia un problema, ma i rivoli di sudore che gli bagnano la fronte parlano chiaro.

Nel treno cala il silenzio della notte, ma dormire pare un’impresa impossibile. Le ore sembrano non passare, solo l’ipnosi del paesaggio fuori dall’oblò aiuta a calarsi tra le braccia di Morfeo. Lampeggiano i neon posti lungo la ferrovia e scorrono file infinte di alberi nel buio. Alla fine le palpebre vincono la canicola. 7.15: il capotreno passa a svegliare i passeggeri. In un attimo le brande sono disfatte e le lenzuola riconsegnate: si è in prossimità del Baltico, alle porte di San Pietroburgo. È impossibile non sentirsi, almeno per un attimo, parte viva della storia russa. L’ingresso a Leningrado veste il turista dei panni innocenti e sornioni del principe Myškin. Si ha così la percezione di rivivere, almeno per un istante, il primo capitolo dell’Idiota di Dostoevskij. Il treno approda alla stazione Moskovskij e rigurgita sulla banchina avvolta dalla nebbia il proprio carico. I passeggeri sono stati masticati dalle lamiere del treno e ora, storditi dalle 8 ore di viaggio, restano per un attimo basiti sotto la volta della stazione affrescata con le imprese degli eroi della rivoluzione.
Ancora pochi minuti in stazione e si è pronti per un nuovo viaggio in metropolitana per avventurarsi tra le vie della capitale zarista. Alle spalle si è lasciato il cuore pulsante dell’impero sovietico, con la sua retorica di regime e il suo treno, mentre davanti agli occhi splendono i palazzi settecenteschi che si specchiano nelle acque della Neva.

venerdì 27 marzo 2009

Una riflessione sulla democrazia del consenso


Per poter emettere un giudizio, l'uomo si affida a delle categorie che determinano il gradimento, o viceversa il disgusto, per l'oggetto preso in analsi. Potremmo partire da quest'introduzione tipicamente kantiana per avvicinarci al fenomeno evolutivo democratico, da rappresentativo a consensuale.

Posti davanti a fiumi di grafici e numeri, il relativismo politico della lettura dei dati ha fatto si che perfino la matematica possa diventare una vera e propria opinione. I numeri di sondaggi, anche i più autorevoli,vengono utlizzati come armi di persuasione di massa. Senza pudore nei salotti politici si legge lo stesso dato come successo o insuccesso. Non importa chi ha ragione o chi dice la verità, i numeri danno ragione a tutti e a nessuno, l'importante è sopraffarre momentaneamente l'avversario. Oppure: si lancia un'allarme, un'indagine registra una percezione di disagio e allora vi si pone rimedio. Gli esempi di questa pratica sono molteplici. Insomma, il relativismo numerico è il principio fondatore della democrazia del consenso.


L'immedesimazione dell'elettore nei panni del candidato è quindi diventato un concetto ormai obsoleto. Obama parla al popolo americano come fosse uno di loro ma fatica a reggere l'impatto dei giornalisti, Berlusconi veste i panni del presidente operaio e ferroviere, Veltroni sposò il motto "Si può fare". Personaggi diversi, obiettivo comune: la ricerca del consenso. Non esiste una programmaticità intellettuale, ma una pragmaticità continua che promette di soddisfare la pancia della sacca elettorale, il vecchio panem et circem di romana memoria.

La sana politica dovrebbe fondare le proprie radici elettorali all'interno di un più profondo terreno, quelo della fiducia, humus che garantisce il fiorire della Politica (con la P maiuscola). La Balena bianca è rimasta tra i piedi per 50 anni, il pci ha fatto opposizione per altrettanti, proprio fondando l'idea politica sul concetto di fiducia. Con tutte le sue pecche, quella fu una democrazia rappresentativa. Tangentopoli ha spazzato via tutto azzerando. E prioprio dall'anno zero che si è ripartiti alla ricerca del consenso.

Ecco dunque tornare d'utilità le vecchie categorie della critica del giudizio, quelle categorie estetiche che ci permettono di sancire ciò che è bene o ciò che è male. Qui si deve formare il cittadino. La stampa deve puntare su queste categorie. Non esprimendo semplicemente un parere preconcetto, bensì contribuendo alla costruzione di quelle categorie che potranno permettere all'elettorato una scelta accorta. Un esempio? Bè, la lettura dei dati. Non facciamola fare ai politici del consenso per poi berci il sermone. Insegnamo ai singoli i mezzi per leggere un sondaggio, sarà poi compito loro andare alle urne in coscienza delle loro categorie.

La pancia è percezione, la testa è realtà. L'invito, qualsiasi sia la scelta, è quello che il giudizio venga espresso con gli occhi dell'individuo e non secondo il motivo sovietico del "non ti preoccuapre se non capisci, a tutelarti ci penso io".

lunedì 23 marzo 2009

Cannibalizzati dal web


Se dovessimo estremizzare l'esistenza di questo blog, ipotizzando che ogni abitante del pianeta possa disporre di un pc, del tempo necessario e della voglia, allora dovremmo accettare che sulla rete coesitano ben 6 miliardi di Pennivendoli. Un incubo immaginare che possano esistere tanti fanfaroni, eppure... Questo preambolo vuole introdurre la dimostrazione di quanto il web stia condizionando il mondo dell'informazione (da non confondere con la comunicazione), stravolgendolo fin nelle fondamenta il newsmaking in chiave darwinista: sopravvive solo il più adatto all'ambiente.


Internet significa flusso continuo di materiale informativo, un fiume in piena di commenti, dati, fatti, ma soprattutto, più o meno attendibili e non sempre verificati. L'informazione con il web diventa immediata, tutto avviene in tempo reale, ancora più velocemente che sulle agenzie di stampa, decretando l'invecchiamento rapido della cara e vecchia carta stampata. Arthur Sulzberger jr., l'editore del «New York Times», sostiene che l'edizione cartacea del prestigioso quotidiano non arriverà oltre il 2013. Vero? Oppure un funerale anticipato?


Internet non sta cannibalizzando la carta stampata, piuttosto sta tracciando il bivio davanti al quale direttori ed editori dovranno deliberare in futuro: rivoluzionare il ruolo della carta stampata o chiudere bottega. Se il web realizza il miraggio della vera libertà di stampa, bisogna considerare che questa stessa libertà, dove chiunque può dire e fare quello che vuole, pone un grande quesito sul ruolo della verità collaterale a questa liberà espressiva. E' qui che ritorna il quesito iniziale. Se dovessero coesistere 6 miliardi di Pennivendoli, allora si arriverebbe al paradosso della non informazione, dove tutti scriverebbero solo per se stessi, godendo del proprio plauso e di fatto annullando l'opinione pubblica.


Un punto focale quest'ultimo, che non deve essere sottovalutato, bensì impone un'apertura delle coscienze degli operatori dell'informazione. Se da un lato, come già si è detto, il web detiene e deterrà il monopolio del real-time informativo, per non rinunciare al mantenimento di un'opinione pubblica sana e forte, fondamento principe di una società democratica, allora la carta stampata dovrà reagire all'arrembaggio degli internauti, evolvendo e separandosi dal concetto generalista e cronicista odierno. Basta cronaca, ma più spazio alla letterarietà della notizia, al gusto del "bel scrivere" e dell'approfondimento. Forse quell'adattamento all'ambiente che salverà la carta dall'estinzione si baserà sulla libera circolazione di idee e non di fatti. Suonerà strana questa cosa, ma se ben ci pensate, nel moento stesso in cui acquistate un giornale in edicola, tutto il contenuto è già vecchio e privo di freschezza. Sulla notizia sono già arrivati il web e le tv con quasi 24 ore d'anticipo.

domenica 22 marzo 2009

La difesa è il miglior attacco. Il fisco ruggisce dallo scudo


Capitale fresco che torna in patria in momenti di crisi, o una norma che assomiglia di più a un mega condono per ricconi che hanno nasconto e insabbiato capitali all'estero? L'Europa si interroga sugli scudi fiscali, ovvero quei pacchetti normativi che dovrebbero favorire la riemersione di capitali tenuti celati nei paradisi fiscali di mezzo mondo, andando così a mettere in difficoltà quei paese che mantengono un profilo ambiguo e non collaborativo con il fisco nazionale.
L'applicazione dello scudo non è una novità di questi giorni, sono infatti anni (2001 e 2003) che l'Italia guida il carosello degli Stati che si sono fatti avanti su questa strada. Tuttavia, il recente sciopero generale indetto dai sindacati francesi riportava la richiesta di annullmannto della decisione dell'Eliseo di imporre un tetto massimo del 50% allo scudo transalpino. La sinistra francese rimprovera a Sarkozy che non è tempo di proporre provvedimenti per coloro che già nutrono discrete possibilità economiche e finaziarie, bensì urge un completo rilancio in chiave non protezionistica (si veda il recente caso Renault), e non un apparato normativo ad hoc per i più ricchi.
Una linea simile fu quella che sposò l'opposizione italiana nel biennio 2001-2003, quando il ministro Tremonti varò il primo piano di scudo fiscale per richiamare capitali in patria. Allora si disse che si sarebbe trattato di un vergognoso condono per quelli che, per evadere le tasse, avevano nascosto denaro all'estero (non del tutta errata come visione). Tuttavia, col senno di poi, dobbiamo ricrederci. Se in politica a volte occorre turarsi il naso, forse quella dello scudo fiscale è un'occasione da non sprecare alla luce dei numeri che conseguono dal disegno elaborato allora da Tremonti. Ebbene, in Italia sono rientrati 83 miliardi di euro, ovvero denaro che ritorna sotto la visibilità fiscale, che a sua volta ha maturato un gettito di tutto rispetto.
Ad oggi gli Stati membri dell'Unione non hanno ancora delineato un piano globale in materia di scudi fiscali, tuttavia la tendenza dell'asse franco-tedesco è più che mai indirizzato alla "punizione" dei paradisi di deposito. La decisione incisiva, stando a quanto sembra essere uscito dal vertice dello scorso 12 marzo, consisterà in un rientro fisico dei capitali esportati e non solo "giuridico". Ora, per cinismo, non ci resta che gettare un occhio alla vicina Svizzera e sogghignare in attesa di una contromossa elvetica. Senza uno scudo sarà difficile sperare nel rimpatrio, pena una pesante morsa sanzionatoria, ergo avanti Savoia!

lunedì 16 marzo 2009

Non un lancio, ma il il rilancio del mattone

Iva fissata al 10% e piano casa. L'Italia e l'Europa ripartono da qui. Accedi al link per leggere l'approfondimento
http://www2.unicatt.it/pls/unicatt/mag_gestion_cattnews.vedi_notizia?id_cattnewsT=8629

martedì 10 marzo 2009

10 motivi per dire si al piano casa


Mentre la stampa radical arriccia il naso gridando all'allarme della bruttura, della cementificazione, dell'asfaltamento selvaggio e del grigiore edilizio, il vostro Pennivendolo, remando controcorrente, vi illustra le sue dieci ragioni per cui invece val la pena dire si al piano casa che sta prendendo forma. Quel che si sa è ancora fumoso, ma già basta per evitare di arroccarsi sulla rupe del "no a priori".


  1. Il provvedimento di legge regionale concede la possibilità ai proprietari immobiliari di aumentare la cubatura dei propri stabili ad utilizzo abitativo, o la superficie degli stessi se adibiti a uso diverso, nonché di riedificare edifici anteriori al 1989 applicando provvedimenti di ecosostenibilità e miglioria urbana. Se non a muovere un po' di quattrini e provare a rilanciare il mattone, ci vedo poco di male.

  2. Essendo concepito su base regionale, il provvedimento dovrà essere votato dalla giunta regionale di riferimento e quindi discusso in consiglio. Inoltre il provvedimento non sarà infinito, ma si limiterà al 2010. Ergo, non si tratta di un diktat, ma saranno le Regioni a discuterne. Altro punto che fa ben sperare.

  3. Le migliorie di ampliamento non saranno eseguibili, come si dice "da cani e porci", ma dovranno essere approvate dal comune di riferimento. Ovvero, a farla da padrone sarà il piano regolatore vigente e di conseguenza non si tratterà di cementificazione. Quello che non potevi fare ieri, non lo farai nemmeno domani.

  4. Entrerà in vigore una sorta di supervalutazione dell'usato da rottamare in termini di demolizioni di patrimoni immobiliari anteriori al 1989. Se si dovesse decidere di riedificare seguendo tecniche di bioedilizia, sarà concessa la possibilità di un aumento del 35% sul nuovo stabile. Questo si traduce in investimenti freschi, risparmio energetico, riqualificazione etc etc... Non mi sembra una trovata da edilizia popolare sovietica (vedere per credere la periferia di Mosca o Berlino est).

  5. Le prerogative di bioedilizia con le quali si dovrà procedere all'edificazione dei nuovi stabili dovranno rispettare i presupposti di isolamento, risparmio energetico e installazione di fonti di energia rinnovabili. Più una posizione da verdi che da palazzinari.

  6. Ogni bene edilizio sottoposto a qualsiasi forma di vincolo di tipo ambientale, storico, paesaggistico, artistico e via dicendo non potrà essere assolutamente toccato. In cantiere c'è anche un piano sanzonatorio adeguato per chi non rispetterà i vincoli. Parallelamente verrà previsto un ravvedimento operoso per chi eliminerà gli abusi. Insomma, se non se po' toccà, non se po' toccà.

  7. la decisione di un aumento di cubatura su una realtà condominiale dovrà essere decisa previa via libera dell'assemblea condominiale. Democraticamente corretto, ci mancherebbe altro!

  8. Chi deciderà di aumentare non lo farà a spese dei contribuenti. Via i furbetti del mattone. Chi aumenterà cubatura o superficie dovrà metterci tutto di tasca propria. Restano al vaglio eventuali agevolazioni fiscali, forme creditizie dedicate o agevolazioni sugli oneri urbanistici. Insomma, si mettono le mani su calce e mattoni solo se hai i soldi nel portafogli, altrimenti nisba.

  9. La burocrazia per la partenza dei cantieri sarà alleggerita. Una perizia giurata avrà l'onere di controllare la genuinità del progetto e l'eventuale abolizione del permesso di costruzione. Inoltre aumenteranno i casi in cui sarà sufficiente la denuncia di inizio lavori per procedere. Meno cartacce e più fatti.

  10. In ultimo, ma non da poco, essendo l'urbanistica delegata agli enti locali, le Regioni avranno la libertà di fare propria questa legge cornice avanzata in maniera congiunta al governo solo dopo aver valutato la possibilità. Nel mentre si parla di ipotetici finanziamenti di 550 milioni di euro che andranno alle regioni per la costruzioni di alloggi da destinare a giovani, anziani e immigrati regolari. Mah, che dire...

A tu per tu con l'essenza del potere




Il Pennivendolo sta leggendo per voi l'ultimo saggio del filologo Luciano Canfora La natura del potere pubblicato da Laterza. Presto pubblicherò la recensione. Abbiate un pizzico di pazienza...

Lavorare per vivere o vivere per lavorare?


Si parla di precariato e lavoratori atipici, ma principalmente si pensa che questo sia un problema strettamente legato alla sfera dell'impiego privato. Eppure, sebbene strisci nell'ombra, questo fenomeno è latente anche nella pubblica amministrazione, solo che i più ne sono all'oscuro. Di fatto non si conoscono, né i numeri, né le dimensioni del precariato nel pubblico impiego, ed è proprio per questo che il ministro Brunetta ha dato il via a un progetto di ricerca per capire l'entità del fenomeno. Un'iniziativa dovuta, ma quali saranno i proveddimenti del governo? Renato Brunetta non è mai stato tenero con gli sprechi che hanno plasmato l'immaginario collettivo della pubblica amministrazione, dunque dovremmo presumibilmente aspettarci un giro di vite volto a cancellare la tendenza a fare del pubblico impiego il luogo del lavoro sicuro, il santuario dei deretani inchiodati alle poltrone del tutto dovuto. Se è prassi che il lavoro a tempo determinato, a progetto o a scadenza qual si voglia, sia uno strumento usato (ma allo stesso tempo abusato) dal privato, perché none estendere le stesse dinamiche anche agli statali?
Insomma, non è chiaro perché si debba dare per scontato a priori che un dipendente statale precario debba per forza di cose essere integrato, quando invece un privato resti in balia delle dinamiche economiche. Un mercato del lavoro sano, mobile e agile come quello anglosassone non prevederebbe nemmeno il problema, ma l'Italia è l'Italia. Scoprendo la dimensione della precarietà statale, si potrà così in intervenire per colpire quelle amministrazioni che sfruttano e mantengono atipici lavoratori che dovrebbero invece lavorare con ben'altri contratti, ma dovrà essere altrettanto chiaro che la parola "posto sicuro" dovrà scomparire dal dizionario dei lavoratori statali. Potrà sembrare un concetto brutale, ma questa è la via per portare l'eccellenza in un settore lavorativo non certo famoso per l'efficienza.
Probabilmente sarà questa la via che imboccherà il governo Berlusconi dopo che il "censimento" indetto da Brunetta consegnerà il ritratto del pubblico impiego. Almeno, così spera il vostro pennivendolo. Per ora non fasciamoci la testa prima di essercela rotta, sebbene un rivolo di sangue scenda dalla cute. Già sangue e ferite, perché c'è chi ha fatto del precariato un triste compagno di vita. Ma quale sarà la via d'uscita? Pensionare tutti a 50 anni per assumere un esercito di rampanti ventenni? Anche a me piacerebbe vivere nel paese dei balocchi.

giovedì 5 marzo 2009

I cento anni del secolo della velocità


Tanti auguri. Cento anni di voli e velocità, passione avanguardistica e impeto demolitore. Un secolo di futurismo. Leggi il dossier pubblicato su mag http://www2.unicatt.it/pls/unicatt/mag_gestion_cattnews.vedi_notizia?id_cattnewsT=8539

La "Morganeide"


Un fiume in piena, tra follia e lucide visioni sullo stato della televisione: Morgan è ospite dell'Università Cattolica di Milano. Ubriacante nei ragionamenti, irriverente e caustico come ci si aspetta, la voce dei Bluvertigo ha legato un'aula dell'ateneo milanese al circo mediatico di X Factor. Ho assistito alle oltre due ore di show e ne sono uscito intellettualmente illeso, tra richiami alle maschere e cenni di filosofia estetica. Ecco il link del resoconto dell'incontro, pubblicato sul web journal della Scuola di giornalismo. Buon divertimento: http://www2.unicatt.it/pls/unicatt/mag_gestion_cattnews.vedi_notizia?id_cattnewsT=8612

La memoria passa per la parola


In occasione della pubblicazione del nuovo romanzo di Aharon Appelfeld, Paesdaggio con bambina, ho assistito alla Lectio magistralis dell'autore presso il Circolo della cultura di Milano. Originario della Bucovina, Appelfeld è orfano della shoa, fuggito a soli otto anni da un campo di concentramento è stato "adottato" dalla malavita Ucarina e in seguito si è unito all'Armata rossa come cuoco da campo. Nel 1946 è approdato in Israele divenedo testimone dell'origine dello Stato ebraico. Paesaggio con bambina chiude la trilogia della memoria iniziata con Badenheim 1939 e Storia di una vita. I suoi romanzi sono pubblicati in Italia da Guanda.


«Tra tutti i libri di Appelfeld, Paesaggio con bambina è quello che presenta la realtà più dura e la forma di sofferenza più estrema»

Philip Roth
Questo è il link dell'articolo pubblicato per il web journal della Cattolica http://www2.unicatt.it/pls/unicatt/mag_gestion_cattnews.vedi_notizia?id_cattnewsT=8604

lunedì 2 marzo 2009

Quando anche gli avversari conoscono i media


Con la puntata di Che tempo che fa Dario Franceschini cambia volto. Un'evoluzione, da bruco a farfalla, da punto interrogativo a pareggio sulla linea del traguardo. Non si tratta di chissà quale trovata politica, ma dell'intuizione che l'unico modo per rivaleggiare ad armi pari con Berlusconi è quello di affrontarlo sullo stesso terreno, quello della comunicazione. Che di fatto la proposta degli assegni per i disoccupati, ricavando i fondi dalla lotta all'evasione, sia una sparata bella e buona, poco conta. Il neo segretario del Pd ha capito che per competere con il cavaliere bisogna combattere a suon di spot. Ma è con le sparate che si fa politica? Panem et circem...
Comunicare, comunicare e ancora comunicare. L'imperativo categorico assoluto non sembra essere più il littorio Vincere! Un volto fresco, l'abilità di fare della crisi economica il pretesto d'attacco, una trasmissione con un presentatore amico e il gioco è fatto. Sono così finiti in soffitta i gerontocomici discorsi prodiani, piuttosto che l'arzigogolata retorica veltroniana. E' presto per cantare vittoria, ma attenzione. Forse i compagni di partito di Franceschini lo hanno ritenuto, a torto, un personaggio di transizione (traviando anche il sottoscritto). Ricordate cosa avvenne con l'elezione di Bettino Craxi alla guida del Psi? Bè anche lui, si diceva, avrebbe dovuto rappresentare una fase transitoria. Peccato che la storia ci racconti il contrario.
Non che mi interessi particolarmente che Franceschini faccia carriera, anzi. Diciamo piuttosto che siamo al primo grado di una crescita che potrebbe diventare interessante nella bagarre politica col cavaliere. Il prossimo passo sarà la progressiva capacità di occupazione dei media e infine un pacchetto di contenuti che non suonino come colpi di pistola a salve.
Dico a salve perché è chiaro che anche stavolta il Pd si è tirato la zappa sui piedi. Se l'esecutivo Prodi non avesse levato il sistema pensionistico maroniano a scaloni, adesso lo stato godrebbe di un tesoretto cospicuo per poter provvedere agli assegni anti crisi osannati da Franceschini (vedi La Stampa odierna). Inoltre inutile dimenticare che proprio Veltroni, in campagna elettorale, cantava l'uscita dei partiti dalla Rai, mentre il suo ultimo atto politico è stato proprio l'atto lottizzatorio della tv di Stato. Quale sciagura sarebbe stata la coerenza se oggi scopriamo nel neo segretario del Pd un bel volto videogenico?