domenica 26 aprile 2009

Il boomerang del 25 aprile


Doveva scattare il trappolone. La tagliola avrebbe dovuto tranciare le gambe del premier in vista delle europee, giusto per guadagnare qualche punticino e cercare di salvare il salvabile. Invece no. Chi l'avrebbe detto? Eppure il bilancio del primo 25 aprile del Berlusconi politico si è trasformato in quel boomerang mediatico lanciato da Franceschini (annunciato ieri sul Corriere da Massimo Franco), che col suo ritorno rischia di rompere il naso al segretario del Pd. "Che venga in piazza" si disse la scorsa settimana, "che sfili insieme a noi, non ci saranno ne fischi ne contestazioni". Poco importa se Formigoni è stato trattato manco fosse il duce in piazzale Loreto.
Dopo 15 anni di ingiustificato silenzio, Berlusconi ieri ha rotto ogni indugio sulla festa più strumentalizzata della storia nazionale. Si è allontanato dalle piazze gremite di idioti muniti di bandiere del Che, pelestinesi, cubane e venezuelane (a Milano è successo anche questo!), ma si è recato nel cuore della silenziosa dignità abruzzese, lontano dai luoghi comuni della politica che parla di parti per trovare, tra l'orrore delle macerie di Onna, la pietà per il sangue versato nella nostra guerra civile (A darne atto non è Fede, Rossella, Belpietro, Giordano, Feltri o la Confindustria, ma è Eugenio Scalfari su la Repubblica http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/berlusconi-25-aprile/scalfari-25-aprile/scalfari-25-aprile.html).
I nuovi custodi della democrazia italiana speravano di trascinare il premier in piazza per gettarlo in pasto alla massa urlante giocando sul ricatto (giustificato) che non è ammissibile che un presidente del Cosngilio non prenda parola in una ricorrenza tanto importante per la storia patria. Sono stati accontentati: peggio per loro, Franceschini avrebbe dovuto fare meglio i conti sull'abilitià comunicativa di Berlusconi. E deve essere chiaro che non c'era buona fede nell'invito Pd a Berlusconi e i fischi ignobili contro Formigoni ne sono la prova tangibile (proprio come la schifosa brutalità con cui venne accolta Letizia Moratti che spingeva la corrozzella del padre partigiano). Probabilmente chi deve farsi un bell'esame di coscienza sono tutti gli ex fascisti del Pdl e gli ex comunisti del Pd (perché si ricordino che anche se hanno vinto la guerra non sono giustificati dall'astenersi da un bel mea culpa ideologico). W il 25 aprile, W l'Italia e W la Libertà. Arrivederci all'anno prossimo.

mercoledì 15 aprile 2009

A tu per tu con il deserto


La jeep schizza a 80 orari sul fondo ti terra battuta. Sembra di essere nella centrifuga di una lavatrice. C'è poco da fare se non guardare il nulla facendosi sballottare. Si corre su quello che non c'è, direbbero gli Afterhours, eppure l'obiettivo è chiaro. Le dune sono all'orizzonte, alte e rosse, colorate dal sole che piano piano cala al di là dell'Atlante. Da un lato l'Algeria, dall'altro le montagne marocchine. Un punto bianco dentro al deserto, ecco cos'è il fuoristrada che corre nella piana berbera, un punto nel mezzo del nulla. Ma come è possibile fluttuare nel nulla? Tutto è possibile facendosi passare fra le dita un pugno di finissima sabbia levigata dal vento. Le scarpe si riempiono in un attimo, la sabbia scorre come nei racconti delle mille e una notte, ma questa volta è tutto vero. Basta lasciarsi alle spalle Erfoud e l'unica lingua d'asfalto che finisce a Merzouga e Rissani, il resto lo fa l'abbraccio dell'Erg Chebbi.

L'essere nel nulla è il magico regalo del deserto. L'oriente e il suo misticismo si catalizza qui, rendendo vivo l'ossimoro dell'esistenza al centro del vuoto. Ci si arrampica su una duna ed è lì che si comprende il limite del singolo di fronte all'infinito. L'occhio non scorge la fine di questo mare rosso che cambia continuamente al calare del sole. Nemmeno l'udito è d'aiuto. Il vento soffia, ma non abbastanza per coprire l'eco del nulla. Nemmeno i propri passi riescono a fare rumore. Il deserto sconfigge l'individuo con la sua persistente esistenza di nulla. C'è poco da fare: ci si può lasciare a dubbi divertimenti come lo sci sulle dune o il raid con potenti fuoristrada: alla fine il deserto vince sempre. L'indomani non si presenta con la stessa faccia di come lo si ha lasciato. Il deserto è in costante divenire, è eterno presente, fuori dal tempo e dallo spazio, perché questi due indicatori cartesiani della fisicità umana qui non hanno senso di condizionare niente e nessuno.

Non resta che scalare un'altra duna...

Il cinema kazako passa da una tazza di tè


Lo zucchero si deposita dolcemente sul fondo della tazza trasparente. Si può partire da questa immagine rallentata per parlare di Darezhan Omirbayev, perché il cinema kazako ha il sapore di un tè preso in compagnia di pochi intimi. In occasione della diciannovesima edizione del festival del cinema africano, d’Asia e America Latina, il casello di Porta Venezia a Milano è diventato punto d’incontro tra artisti, cineasti e pubblico, raccolti in un convivio in cui cinema e tè diventano i collanti per chiacchierate informali tra amici. Quest’anno il festival ha voluto rendere omaggio a uno degli esponenti più significativi della produzione cinematografica del Kazakistan, Darezhan Omirbayev.
François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol ed Eric Rohmer, si può così definire la patristica della nouvelle vague, ma chi l’avrebbe mai detto che anche il Kazakistan ha avuto la sua onda costruita all’Institute of Advanced Cinema Studies di Mosca? La scissione tra regia e sceneggiatura e la concezione del regista come vero e proprio scrittore di cinema alla stregua dei maestri francesi degli anni Cinquanta, costituiscono il paradigma per Omirbayev ponendolo all’apice di questa corrente innovatrice sviluppatasi verso la fine dell’era sovietica. I suoi lavori sono però permeati anche da una forte vena derivante dalla maniera minimalista di Robert Bresson che permette a Omirbayev di sfociare nella trasposizione cinematografica dei grandi capolavori della letteratura russa. Chouga, girato nel 2008, è quindi una nuova interpretazione di Anna Karenina di Tolstoy che permette di mescolare grandi tematiche che vanno dall’alienazione urbana (già affrontata in Killer del 1998), alla corruzione dell’era post sovietica.
Darezhan Omirbayev, davanti a una tazza di te tè kazako, si è raccontato. “Da bambino amavo disegnare e questo mi ha portato ad avvicinarmi alla realtà della cinematografia - dice il regista -. A tutti i bambini piace disegnare? Non credo. Nella mia classe eravamo solo in due e non è un caso che a scuola il disegno era visto come una cosa da poco, spesso sostituita con altre materie. Questa mia passione si è realizzata con la cinematografia, perché in fondo cos’è il cinema se non una serie di disegni sulla pellicola?”. Omirbayev è anche critico cinematografico, ma scavando in profondità scopriamo un cineasta che, prima di dedicarsi alla macchina da presa, ha avuto a che fare con ben altri interessi: “Quella del cinema è la realizzazione di un sogno, considerando che come mio padre sono laureato in matematica - racconta il Omirbayev - La decisione di dedicarmi alla cinematografia è venuta col tempo. La scuola di cinema era a Mosca, molto lontana dal Kazakistan, così mentre ancora mi dedicavo alla matematica avevo fatto della visione dei film il mio passatempo perché l’unica attrazione che c’era era quella di assistere alla proiezione delle pellicole dei film sovietici. Terminati gli studi in matematica però, per evitare l’arruolamento nell’esercito, mi sono trasferito a Mosca alla scuola di cinema”.
Pensare alla cinematografia sovietica come qualcosa di terribilmente angosciante e opprimente è, sotto certi punti di vista, un errore. Escludendo i filmati di regime e l’eventuale stretta censoria, è doveroso scostare l’immaginazione della cinematografia russa dalla fantozziana concezione de La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ejzenštejn. “Ai tempi dell’Urss la cinematografia era variegata e non c’era il monopolio distributivo di Hollywood - chiosa Omirbayev - così in Kazakistan proliferavano film italiani, iraniani e giapponesi per esempio, oltre che il cinema tradizionale Kazako. La mia produzione però si discosta dai dettami della tradizione. L’onda della mia generazione racconta i cambiamenti del paese dopo il distacco dall’Urss, una linea nuova e controtendenza”. Alla luce di ciò, non si può sorvolare che c’è un cordone sensibile che lega Omirbayev al cinema italiano. La tesi, con cui il cineasta kazako si è laureato alla scuola moscovita, è centrata sulla semiotica del cinema e ha per oggetto le teorie di Pasolini, Metz, Jakobson e Mitry. Proprio su Pierpaolo Pasolini, Omirbayev afferma: “Lo sento molto vicino come regista e, siccome sono molto appassionato di astri, siamo anche legati da un’affinità astrologica. Tuttavia, sotto il profilo della direzione abbiamo una visione differente dell’uso della musica e devo ammettere che i suoi ultimi film ho faticato a comprenderli. Resta comunque un maestro, tant’è che tuttora faccio vedere i suoi film ai miei allievi”. Il tempo del tè è passato e non rimane che posare il cucchiaino a lato della tazzina e gustarsi uno scorcio di Kazakistan attraverso l’obiettivo della macchina da presa di Darezhan Omirbayev.

(L'articolo è stato pubblicato dalla rivista italo-africana online www.assaman.info)

La scossa mediatica dell'Abruzzo


I terremotati si fanno la doccia. I terremotati mangiano. I bambini terremotati giocano. Non ci crederete ma i terremotati abruzzesi vanno anche in bagno. Sono notizie sensazionali, scoop, approfondimenti di un certo livello. Condiamo il tutto con un bel sottofondo di violini strappalacrime, proprio come quelli degli zingalrelli in metropolitana, uno zoom su un orsacchiotto che sbuca dalle macerie e l'audience è assicurata. Show business. Non è il caso di inventarsi chissà quale termine sociologico, piuttosto che esplorare nuove frontiere mediatiche, quello che il panorama informativo offre a una settimana dalla tragedia del sisma abruzzese è puro intrattenimento, o garbage mediatico qual si voglia.

Abbiamo visto giornalisti inseguire anziane signore davanti a un cesso chimico per chiedere come sia la situazione dei servizi igienici. Idioti. Se non lo avete mai fatto immaginate come può essere comodo e agile fare la cacca in un gabinetto chimico. Abbiamo visto giornalisti fermare persone in ciabatte e accappatoio mentre uscivano dalle docce per chidere come fosse l'ebbrezza di lavarsi in un container. Idioti. Quelle sono persone e non attori su un set. E quella che si sta producendo non è informazione ma feticismo mediatico. Vedere, vedere, vedere ma l'importante è non capire. Chissenefrega del sisma. In fondo non è che un'occasione come un'altra per trasformare la verità in un reality show.

Ma ce n'è per tutti i colori dell'indignazione. Come dicevo, finiti i servizi su come si cuoce una pentola di spaghetti al sugo nella tendopoli de L'Aquila, ecco che il sipario si apre sulla straziante processione di bare che lasciano il capoluogo abruzzese. Violini, voce narrante che racconta storie di giovani vite spezzate, uno zoom a sfuocare et voilà, les jeux sont fait. Un minuto di servizio giornalistico bello che pronto a incollare milioni di persone allo schermo all'ora di cena e far loro esclamare quel patetico e irrispettoso "poveretti", tra una forchettata di bucatini e l'altro (per poi cambiare canale al volo perché inizia Chelsea Liverpool).

Per i signori del giornalismo televisivo (e non solo) ecco cosa valiamo. Milioni di pirla da mantenere incollati allo schermo, contenitori da riempire senza informare, bocche da nutrire con quel surrogato da 1984 che è la televisione del vero. Perché tutto il gotha del giornalismo intellettuale non si fa un bell'esame di coscienza per iniziare a raccontarci quello che veramente conta? Costa fatica, meglio evitare. Indagate, indagate e indagate ancora. Spero che qualcuno prima o poi mi faccia sapere nomi e cognomi di quei farabutti che hanno approvato i progetti degli stabili crollati. Spero un giorno che qualche giornalista mi dica chi e come speculerà sui fondi di ricostruzione. Spero un giorno che qualcuno mi spieghi come funziona l'iter di approvazione e il carico di responsabilità di un progetto edilizio. Spero, spero e ancora spero. Invece di continuare a ripetermi nella testa "baracche, baracche e ancora baracche".