lunedì 25 maggio 2009

Mezzi di distrazione di massa


Il premier dovrà rispondere alle 10 domande di D'avanzo riguardo la questione di Noemi Letizia. Il mondo politico vuole la verità! "Che venga in parlamento!". Di Pietro minaccia una mozione di sfiducia verso Berlusconi, altri chiosano il ritrito "Si dimetta!". Fantapolitica. Mentre l'opinioone pubblica viene pilotata dietro alle belle gambe della sedicente diciottenne napoletana, qualcuno ha ancora la benché minima idea di cosa stia facendo l'esecutivo? Una domanda scomoda, ma calzante a pennello per coloro che sostengono la tesi dei complotti. Nel mezzo di questa bufera tutta italiana, si sta perdendo di mira l'elemento fondante della democrazia: il vero diritto di informazione. Magari ai più interessa sapere chi va a letto con chi, o chi ha palpottato chi, ma a qualcun'altro, come il vostro Pennivendolo, interesserebbe andare a fondo di ben altre situazioni.

Appurato che sul caso Mills più nessuno ha trovato nulla di nuovo e interessante da dire si è ritornati alla festa napoletana e alle abitudini sessual-maniache del premier. Se questa non è una mossa di disinformazione di massa, allora che cos'è?

Ma lo sapevate che si sta valutando la riduzione del numero dei parlamentari? Magari sì, magari no. Ma lo sapevate che il Ministero dell'economia sta valutando la tanto agognata riforma delle pensioni? Magari sì, magari no. Ma lo sapevate cosa significherebbe in termini occupazionali la scalata di Fiat a Opel? Magari sì, magari no. Insomma, se qualcuno sa rispondere a queste domande, allora ritiro la provocazione, ma siccome sostengo che siano di più coloro che conoscono la taglia di reggiseno di Noemi Letizia, piuttosto che quel che sarà del proprio posto di lavoro o delle prospettive lavorative dei figli, allora è il caso di riportare l'attenzione sotto il corretto occhio di bue. Dimenticavo: L'Aquila è già stata ricostruita o ce ne siamo bellamente dimenticati?

Che la minigonna sia allettante, soprattutto se si tratta di quella di Noemi Letizia, attenzione a non cadere in fallo (perdonate il gioco di parole, ma non ho resistito): la minigonna deve attrarre ma non distrarre.

mercoledì 20 maggio 2009

Torino 3: L'indignato speciale


Mentre al Lingotto va in scena la kermesse internazionale di quesi fascicoli di carta stampata racchiusi tra due copertine, il cui nome non ricordo, in piazza Carlo Alberto Mediaset festeggia il traguardo del digitale terrestre in Piemonte. Amici e Grandi Fratelli hanno esibito tette, culi e cosce danzanti. I due volti dell'Italia, l'intellettuale e la magnacciona racchiusi nella stessa città. Sopra l'idilio fraterno del radical chic al Lingotto e il tamarro di periferia in centro ci spruzziamo una spolveratina di studenti incazzati e bellicosi, una rissa tra metalmeccanici e infine il corteo dei nostri amici diversamente eterosessuali. Torino è il nuovo ombelico del mondo. Avanti Savoia!

Torino 2: L'amore, l'angoscia, la guerra e la famiglia viste con gli occhi dell'Altro


Piace proprio a tutti, anche a quelli che un suo libro non l'hanno mai letto. Le due casalinghe di Voghera sedute in spasmodica attesa del suo arrivo nella sala dei "500" commentano "che uomini così non ce ne sono più", dispiace per i loro mariti. David Grossman ha conquistato i cuori dei visitatori della Fiera del libro a prescindere dal fatto che siano o meno suoi lettori. Argume e dolcezza, un pugno al cuore sferrato con un sorriso, questo è Grossman. E' passato un anno dalla pubblicazione italiana del suo ultimo romanzo A un cerbiatto somiglia il mio amore edito da Mondadori e i tempi sono maturi per tirare le somme: "A un anno di distanza ho raccolto reazioni, informazioni e commenti su questo libro - spiega lo scrittore israeliano -; sono rimasto sorpreso come il pubblico italiano si sia esposto emotivamente alla stratificazione di temi di cui il romanzo è permeato. Temi che per altro ritenevo prettamente legati alla realtà israeliana e che invece sono stati accolti come interrogativi universali". Il rapporto uomo donna, madre e figlio, la guerra, la diffidenza verso il diverso e la tragedia arabo israeliana. Scorrendo le pagine del romanzo ce n'è per tutti i piani di lettura: Orah, la protagonista, rapirebbe il cuore di qualsasi madre, così come Ofer incarnerebbe l'ambizione di ogni figlio e Avram il tormento dell'innamorato. Forse è proprio l'alchimia di sincerità dei personaggi il segreto del successo di Grossman. "Quando scrivo i personaggi che creo sono sinceri perché io entro in vera intimità con loro - continua Grossman -; poi il libro esce e, a distanza di tempo, mi accorgo attraverso i lettori che si svelano sottigliezze e sfaccettature delle quali ero inconsapevole. Se durante la stesura c'è l'intimità con il personaggio, è solo il lettore che in un secondo tempo mi rivela veramente ciò che ho creato". Una tesi che è anche la chiave di lettura del libro. "Sei tu che mi stai rivelando qualcosa che avrei dovuto sapere" dice Avram a Orah nel flashback iniziale del racconto. A un cerbiatto somiglia il mio amore è un romanzo di viaggio, dove il tema dell'homo viator è strumento per fuggire da una possibile cattiva notizia. Ofer, il figlio di Orah, è al fronte impegnato in una delicata operazione militare, così la madre fugge per tutto il periodo di ferma del figlio dalla possibilità di ricevere la notizia della sua morte. "In Isreale c'è un cerimoniale particolare per comunicare la morte di un soldato al fronte. Una volta accertata la notizia, gli impiegati dell'esercito si impegnano a raggiungere le famiglie a qualsiasi ora del giorno e della notte - spiega Grossman -, così Orah crede, con un pizzico di magia e misticismo, che se non si presenterà a ricevere la notizia, allora non può suceedere nulla di male a Ofer". E Grossman lo sa bene cosa vuol dire ricevere la notizia della perdita di un caro in guerra: nel 2006 durante l'invasione del Libano, lo scrittore israeliano ha perso il suo secondogenito Uri di 21 anni, proprio mentre completava la stesura di A un cerbiatto somiglia il mio amore.
La fuga di Orah non è fine a se stessa; per esorcizzare il presagio della morte imminente del figlio, Orah ricorre a un escamotage: ne ripercorre tutta la vita passo per passo: "Questo libro è pieno di dettagli di vita quotidiana, di elementi su cui si costituisce l'entità di una famiglia, di come si mette al mondo un essere umano e degli sforzi, delle ansie necessarie per crescere un figlio - continua lo scrittore israeliano - Sapendo che il figlio è al fronte Orah lo vuole proteggere, ma come ? Raccontando la storia di Ofer. I genitori fanno di tutto per i propri figli, tutto ciò che si reputa indispensabile e si insinua continuamente il pensiero che tutto ciò che si fa lo sia fa per il loro bene. Così si ha la consapevolezza che a loro non può succedere nulla. Quando lo schermo protettivo di Ofer cade, a Orah non rimane che raccontare la sua storia per continuare a proteggere il ragzazzo".
Scorrendo la produzione letteraria di Grossman colpisce la maniacale precisione con cui lo scrittore affronta il tema della delineazione dei propri personaggi. Un'ossessione quasi, quella che sente il romanziere per la fisicità dei protagonisti, come un atto di volontà per avere la consapevolezza della loro possibile realtà: "Il corpo capisce e io posso capire con il corpo - continua l'autore israeliano -. Io scrivo in maniera fisica e sono chiamato a scoprire come si sta dentro alla pelle del mio personaggio, a capire come è fatto. Per questo devo sempre trovare qualcuno a cui il personaggio assomigli in carne e ossa per riuscire a immedesimarmi in lui. Quando scrissi Qualcuno con cui correre ricordo che ebbi difficoltà a trovare un volto per Tamara, la protagonista. Mi trovavo al centro commerciale e vidi una ragazza che mi trasmetteva tanta dolcezza quanto determinatezza, proprio come doveva essere Tamara. La guardai e, prima che si rompesse l'incanto, me ne andai dal negozio. Avevo un volto per Tamara".
L'arte della scrittura, che sia di Grossman o meno, ci deve quindi portare a confrontarci con l'Altro, entrando nella testa e nel cuore di chi ci sta davanti riconoscendone pregi e difetti: "Spesso rinunciamo a fare esperienza dell'altro per paura di immischiarci col disordine e il caos che potremmo trovare dentro di loro - siega Grossman -. Se da scrittore ponessi fine al pensiero die miei altri creati nei libri, allora scopreirei quanto poco so del mondo che mi circonda. Noi usiamo parole, ma non tutte queste sono intese dagli altri per quello che valgono ed è per questo che la scrittura ha valore, perché mi svela la realtà attraverso gli occhi degli altri".
Ascoltare David Grossman significa anche confrontarsi direttamente con la questione palestinese in maniera non convenzionale, lontano dai luoghi comuni del pacifismo di bandiera, ma toccando con mano il nodo cruciale della tragedia umana che si consuma da troppo tempo: "Uno per Israele e uno palestinese, sarebbe questa la sola e unica soluzione secondo la mia modesta idea - conclude Grossman -. Dua Stati separati da normali confini e non mura. Il nostro nuovo premier Benjamin Netanyahu sa che questa è l'unica via d'uscita dal conflitto se non si vuole finire con l'applicazione di un'apartheid causata dalla realtà di uno Stato binazionale. Barak Obama ha fatto respirare un'aria nuova in questo senso, parlando un linguaggio nuovo lontano dalla xenofobia, comunicando con empatia e solidarietà con entrambi i popoli. Domani (domenica 17 maggio ndr) Obama e Netanyahu si incontreranno e spero che il presidente americano imponga la soluzione dei due Stati perché sono certo che anche Netanyahu la voglia, solo che ha bisogno che qualcuno lo spinga. Altrimenti dovremo rassegnarci a sprofondare nell'ennesimo ciclo di violenza e sangue". E questo non lo vorremmo nemmeno noi.

martedì 19 maggio 2009

Torino 1: Pamuk e la nostalgia della verità


Basta riconoscere che la propria gloriosa nazione si sia resa responsabile di uno dei più efferati genocidi della storia per essere messi alla berlina. La storia del segreto di pulcinella, ma se a puntare il dito contro lo Stato è un premio nobel, la questione si complica. Fa male, molto male, soprattutto se in palio c'è l'ingresso nell'Unione Europea. Orhan Pamuk è di nuovo nel mirino della magistratura turca per le sue affermazioni sullo sterminio armeno. Una notizia che il nobel turco ha ricevuto mentre si preparava a incontrare i visitatori della Fiera internalzionale del libro a Torino sabato pomeriggio. Ma si sa, Pamuk è un signore sotto tutti i punti di vista, un intellettuale vero, a tutto tondo, che davanti a una platea di 500 persone ha liquidato la questione con un diplomatico "Non penso che sia poi così importante, inoltre la sentenza non è chiara. Tutti in Turchia sostengono che la giustizia si stia piegando alla politica, dimenticando che la giustizia è la garanzia per la libertà di parola. Ma alla fine sono qui per una conversazione letteraria". E allora parlaimo di letteratura con Pamuk, o meglio, ascoltiamo.
Per uno scrittore di fama internazionale l'apice del successo si chiama Nobel, ma come si arriva a questo traguardo? E' tutto un caso? "Ci sono due tipi di scrittori - spiega Pamuk -C'è chi legge tantissimo e chi invece scrive per la necessità di esprimersi. Come dicono gli insegnanti, chi legge è portato a scrivere meglio, tuttavia la lettura non è una garanzia. La letteratura è talento, è rabbia, è qualcosa contro cui non si può fare a meno di combattere ogni giorno". Lo scrittore turco appartiene alla categoria dei talentuosi che leggono moltissimo, prova ne è il suo appartamento di Istambul trasformato in una vera e propria biblioteca personalizzata: "Dai 16 ai 33 anni posso dire di essermi forgiato leggendo i libri di altri, il modo migliore per cambiare il modo di vedere il mondo - continua il premio nobel - L'altra possibilità è quella di leggere come passatempo: si legge ma non si cambia, non accade nulla di profondo. Ma la lettura può essere davvero forgiante se affrontata in modo radicale. Un libro ha una potenza esplosiva, si pensi al giovane lettore che si accorge che la propria vita è in pieno cambiamento attraverso la lettura".
Come tutti i grandi, anche Orhan Pamuk ha un proprio pantheon intellettuale a cui è devoto. Dostoevskij, Tolstoj, Mann e Proust sono l'empireo per lo scrittore turco, ma uno spicchio di gloria si può ritagliare anche per alcuni autori italiani: "Calvino si è fortemente radicato in me; lui rappresenta un tramite per osservare il mondo, ma anche Manzoni, Gadda ed Eco sono autori che mi hanno fomrato. Soprattutto Gadda, insieme a Borges, mi ha suggerito la chiave di lettura del romanzo poliziesco, dove tutto è poco chiaro e la chiave risolutiva è da cercare in profondità, come se queste opere si prestassero a scovare qualcosa di misterioso nel mondo. E lo stesso vale per il romanzo di formazione tedesco".
Le opere di Pamuk sono pubblicate in Italia da Einaudi, l'ultimo suo libro Altri colori. Vita, arte, libri e città, è da poco sugli scaffali delle librerie, ma lo scrittore turco è famoso in Italia per altri due romanzi Istambul e Neve: "La Istambul di cui parlo non è quella odierna, si tratta di una città che appartiene alla mia nostalgia, è una città molto più simile ai centri poveri dell'entroterra dell'Anatolia. Ne racconto il modo di vivere come in una foto in bianco e nero - spiega l'autore - in questo c'è una nostalgia particolare, quasi regolata da una sorta di filosofia o di etica, cercando di trarre una lezione di vita lontana dal successo, ma attraverso il misticismo islmaico, nel rispetto di tutto e di tutti accantonando la soggettività. Le giovani classi dirigenti sostengono che la Istambul di cui parlo non gli appartiene, infatti la città che dipingo è la mia Istambul, colma del suo carico di malinconia, lontana dai grandi cambiamenti degli ultimi anni".
La ricerca di Pamuk ha trovato fortuna anche allontanadosi da Istambul, penetrando nel cuore dell'Anatolia, aprendo le porte di Kars, la città dove viene ambientato Neve, il romanzo che svela la svolta dell'impegno civico e politico dello scrittore turco. "L'idea di un romanzo politico risale ai tempi dell'università. Ho rivalutato l'idea quando mi sono prefissato di descrivere gli effetti della rivoluzione iraniana in Turchia, così è nato Neve - spiega Pamuk - avevo la storia ma ancora cercavo un luogo per ambientarla, così cercai un luogo isolato e coperto di neve (quella neve che nel romanzo è la barriera prima dell'isolamento di Kars ndr) e mi recai a Kars, una città attraente per la sua nostalgica malinconia. Lì non conoscevo nessuno inoltre c'era la guerra con i separatisti curdi, così sfruttai l'aggancio come giornalista per raccogliere le informazioni su quel luogo, riuscendo nell'intento di raccontando il vero entrando nel cuore del lettore". L'islam, l'amore, la guerra, Neve è tutto ciò, quasi un luogo stereotipato ma vero che raccoglie e racconta la Turchia di Orhan Pamuk.

venerdì 15 maggio 2009

Dentro la storia dell'editoria


Un secolo e mezzo di storia dell’editoria italiana è entrata nelle aule dell’Università Cattolica grazie a Zanichelli e il Laboratorio di editoria del professor Roberto Cicala. A confrontarsi con gli studenti è stato Federico Enriques, amministratore delegato della celebre casa editrice bolognese che, proprio quest’anno, festeggia 150 anni dalla fondazione. Un incontro molto particolare che mette a confronto l’eccellenza dell’editoria nostrana con i futuri operatori del settore alle prese con la prima pubblicazione realizzata da loro, il volume Quo vadis libro?, l’ottavo fascicolo della collana di testi sull’editoria ideata da Laboratorio del professor Cicala. L’incontro, mediato dallo stesso Cicala, ha esplorato i segreti del successo di Zanichelli trasformando l’occasione in una lezione aperta con gli studenti. In concomitanza con l’evento in Cattolica, Enriques ha anche presentato il suo ultimo libro Castelli di Carte. Il volume non è la consueta storia dell'editoria libraria, bensì è un racconto scritto dall’interno della realtà editoriale, puntando l’attenzione, oltre che alle opere, soprattutto alle persone, alle tecniche, all’organizzazione, insomma a quanto succede dietro le quinte di una casa editrice. In mezzo a questa bufera di libri presentati, di editori, aspiranti scrittori e studenti è logico che sorga un interrogativo? Ma qual è il futuro del libro? Già perché un libro non è solo testo; un libro è anche paratesto, è frutto di un fine lavoro produttivo di squadra. C’è chi sostiene che il giorno in cui morirà il libro morirà anche la nostra civiltà, sarà poi vero? A queste domande ha provato a rispondere Federico Enriques.
“Leggendo i giornali si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’eruzione vesuviana che cancellerà la Pompei dell’editoria libraria, così il mio libro cerca di fermarsi al giorno prima che avvenga questa ipotetica fine – ha spiegato Enriques –. C’è una diatriba tra i sostenitori del libro elettronico e quello di carta, ma sull’argomento è facile dire sciocchezze, proprio perché è impossibile fare previsioni sul futuro sviluppo della tecnologia. Il libro è come un mezzo di trasporto: provate a chiedere a un costruttore del passato se mai avesse pensato lo sviluppo tecnologico odierno?”. La risposta è chiaramente no. Le voci sul destino dell’editoria sono varie e avariate, ma come ricorda Enriques “bisogna stare alle cose concrete. Inutile attaccarsi alla visione hegeliana della scrittura come passo della storia dell’umanità, ma nemmeno cedere a idealismi platonici come chi sostiene che il libro non morirà mai perché qualcuno sostiene di amare la sensazione della carta sulle dita. Dentro a un libro invece ci sono tante tecniche, più o meno raffinate, che servono sia al lettore ma che allo stesso tempo valorizzano la fruizione collettiva dello stesso”.
Nel corso della presentazione il professor Cicala ha sottolineato che la storia di Zanichelli si fonda sulla specificità dell’editoria scolastica e scientifica. Non a caso l’editore bolognese è stato il primo italiano a proporre la traduzione de Sull'origine delle specie per selezione naturale di Charles Darwin, piuttosto che de Sulla teoria speciale e generale della relatività di Albert Einstein. Questo è un punto molto importante, perché produrre un libro di narrativa, piuttosto che per i banchi di scuola, non è la stessa cosa. “Intanto ci sono delle differenze fisiche tra i due. Un libro scolastico non deve essere scelto tra gli scaffali di una libreria a differenza degli altri – spiega Enriques –. Inoltre i formati dei testi scolastici sono grandi, proprio per favorire una fruizione corale e la grafica è curata per guidare all’individuazione di un punto preciso del testo. E poi non bisogna dimenticare che questi libri sono il frutto di una lavoro di più autori, una vera e propria peculiarità”. Ma le differenze non sono tutte qua, con più ci si concentra, anche in rimando alle dinamiche di mercato, più ne emergono, svelando particolari sostanziali a cui normalmente non badiamo.
L’occasione di un ospite così prestigioso è stata colta dai ragazzi del Laboratorio di Editoria per presentare il loro ultimo lavoro, Quo vadis libro? Un volume che raccoglie circa 50 interviste a editori. Esiste davvero una crisi del libro? Di quali dimensioni? Di chi è la colpa? Quali le soluzioni? Sono queste le domande che gli studenti del Laboratorio di Editoria hanno posto a 50 editori italiani per fare luce su un settore che, come a ragione sostiene Cicala, “vive in una situazione di crisi cronica”.

mercoledì 13 maggio 2009

La psicoanalisi ai confini della morte


“Around the end”, nei dintorni della fine, ovvero intorno alla morte. Una tematica che spaventa e riguarda tutti, ma che diventa un terreno fondamentale d’indagine per la psicanalisi. Marco Riva, psicanalista dell’ospedale Fatebenefratelli, ha presentato all’Università Cattolica un filmato inedito in cui Freud, Jung, Lacan, Bion e Musatti vengono intervistati sul tema della morte. “Il video non è che il frutto di vent’anni di lavoro al fianco di malati terminali del reparto di oncologia – ha spiegato Riva -. Fino a cinque anni fa la nostra collaborazione si spostava su richiesta. Inizialmente ci servivamo solo di strumenti farmacologici, ma col passare del tempo il nostro lavoro si è incentrato sulla pratica psicoanalitica, fino alla creazione di un vero e proprio laboratorio di psiconcologia”. Il documentario proposto da Riva è quindi un omaggio ai grandi della storia della psicanalisi posti di fronte al tema della morte e dell’angoscia che essa genera tra gli uomini.
La psicanalisi vissuta come cura della nevrosi, a tu per tu con le pulsioni della vita che diventano un motore vero e proprio per l’inconscio: così Freud, ormai prossimo alla morte, viene ritratto dal documentario nel 1938 a Londra, dove è fuggito dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Si passa poi al 1959, dove Carl Gustav Jung, padre della psicoanalisi analitica (differente da quella del maestro Freud), viene ritratto alle prese con la determinazione del distacco dalla psiche con le direttive di spazio e tempo, sancendone così una sorta di immortalità della stessa e facendo della morte un traguardo per un inconscio minacciato. E qui il documentario di Riva rende omaggio a Jung individuandolo sullo sfondo della copertina di Sgt. Pepper’s dei Beatles accompagnato dalle note di Starwberry fields forever. Con un salto temporale di un ventina d’anni si arriva ai celebri seminari di Jaques Lacan. La presenza scenica dello studioso francese è totale, un vero vulcano in eruzione, ricordando a tratti il miglior Dario Fo. Lacan definisce la morte come territorio della fede, ma allo stesso tempo afferma che la consapevolezza della sua non esistenza renderebbe la vita insopportabile. Sembra un paradosso, ma Lacan si spinge oltre narrando di un sogno pascaliano di un suo paziente che racconta la rinascita di una nuova esistenza ogni giorno: sarebbe un incubo. In antitesi con la forza scenica di Lacan, Riva propone, statuaria e nitida, la loquacità di pensiero di Wilfred Bion che si addentra verso il nocciolo della questione, toccando la tematica principe dell’angoscia di morte in un malato terminale. Bion vede in qualche modo il bicchiere “mezzo pieno” e ritiene ingiusto definire una malattia o una persona “terminale”, poiché bisogna considerare la prospettiva di morte in funzione del tempo che ancora deve venire e che deve essere vissuto al meglio. Ed è proprio su questo periodo che deve ancora venire che la psicoanalisi deve spremere le sue forze, levando quell’angoscia che lega l’uomo al tema della morte. In ultimo, se non per ordine cronologico, l’attenzione di Riva si sposta su Cesare Musatti, importatore in Italia della psicologia della Gestalt.
“Crea una certa suggestione parlare di psicanalisi partendo dalle immagini -, spiega Marco Sarno, esponente della società psicoanalitica italiana, riferendosi al filmato di Marco Riva – ci troviamo quindi di fronte a un confronto di linguaggi, tra quello iconico e quello linguistico, un confronto dal quale non si può non evidenziare uno scarto. Dopotutto anche Freud era partito dai sogni, che di fatto sono l’unione di immagini e parole, sebbene il sogno non sia un quadro ma un vero e proprio minirebus da risolvere. Il pensiero mimico non è quindi che un film e questo film ci pone di fronte al sogno della morte”. Ed è questo sogno che nell’umano può creare angoscia e paura: “Il sogno di morte non possiamo che guardarlo di traverso per la paura – continua Sarno -, tuttavia nel video i protagonisti lo affrontano alla loro maniera. Chi, come Jung, lo allontana da una costruzione per categorie e chi, come Lacan, parla dell’inquietudine della ripetizione di questo sogno”. Ma le considerazioni si concentrano su un punto fondamentale che deriva dal ragionamento proposto da Bion: ovvero che il lavoro della psicanalisi deve puntare a rendere sopportabile l’esistenza, invitando questa disciplina a non indietreggiare davanti alle malattie somatiche, come un cancro terminale.
“La morte non è una malattia, non prevede una cura, eppure durante la nostra esistenza ne siamo angosciati – spiega Eugenio Gaburri, membro della Società psicoanalitica italiana -, ma la spiegazione è da cercare dentro Bion, quando ci suggerisce che ciò deriva dall’accanimento delle cose che non sappiamo spiegarci come affrontare. La paura della morte attiva quindi la psicanalisi proprio perché la morte è irreversibile”. Quello che quindi sollecita Gaburri dopo la visione del documentario di Riva è quello di affrontare questo limite per giungere alla rielaborazione del lutto per riuscire a sconfiggere l’atteggiamento “ipocrita” dell’uomo, decritto da Freud.

sabato 9 maggio 2009

Quale bellezza salverà il mondo?


E’ difficile trovare una definizione che possa soddisfare la millenaria percezione che l’uomo ha della bellezza. Si potrebbe partire da una concezione prettamente aristotelica che con bellezza intende definire il vero, piuttosto che propendere per il versante platonico e sancire una corrispondenza concettuale legata al mondo delle idee, alla metafisica. Poco importa quale delle due definizioni si scelga, l’attenzione deve invece sancire quale bellezza possa in qualche modo salvare il nostro mondo. E’ l’interrogativo che si è posta anche la tavola rotonda coordinata da Don Ambrogio Pisoni del Centro Pastorale dell’Università Cattolica. Le risposte possono essere tante quante sono le persone sulla terra ma, scansando un approccio prettamente empirista alla definizione di bellezza, ecco che la prospettiva di salvezza di un mondo per mezzo del bello assume una forma ben precisa. A raccontare le loro “bellezze” sono stati: l’attrice Lucilla Giagnoni il professor Domenico Bodega, docente di Organizzazione aziendale; il professor Carlo Galimberti, docente di Psicologia sociale e il professor Glenn Most, docente di Filologia Greca alla Scuola Normale Superiore di Pisa e di Social Thought alla University of Chicago.
“Invitare un economista come me a incontri del genere è un azzardo - ha scherzato il professor Bodega -. Nella situazione economica odierna, i sistemi funzionanti non sono quelli più razionali. Ci sono situazioni ambigue perché create da una molteplicità di fattori che devono fornire decisioni spesso azzardate. L’eccellenza della leadership in queste situazioni al limite (in riferimento alla crisi economica) è quindi data dall’integrità morale degli stessi. Siamo dunque di fronte a una percezione di ambiguità che ci porterà a una decostruzione del sistema in vista di una futura ricostruzione. Ebbene, questa capacità di convivere con l’ambiguità e il mistero cogliendone gli stimoli è da ricercare nei poeti”. La poesia come viatico per l’uscita dalla crisi economica, una visione incredibile quanto curiosa, ma Bodega non sembra avere dubbi: “In economia, ora come ora, occorre quella creatività che deriva dalla capacità di stare nel disordine, è questo che serve in una situazione di ambiguità - conclude Bodega -. Come il poeta decostruisce e costruisce, così dovremo lavorare per ritornare alla ricostruzione dei nostri principi valoriali”.
Per il professor Galimberti invece la bellezza redentrice del mondo è da ritrovare nella metafora dantesca delle tre fiere; le tre belve allegoriche che ricalcano le debolezze del genere umano. Appassionato di letteratura e musica jazz, Galimberti ha ricostruito la sua vita segnalando tre tappe alle quali ha affiancato un romanzo preciso che potesse in qualche modo aiutarlo a ritrovare le sue tre fiere. “La Strada” di Cormac Mc Carthy, “Il trentesimo anno” di Ingeborg Bachmann e “Un favore personale” di John Banville. Galimberti ha posto al centro del suo intervento il ruolo fondamentale della parola, leggendo alcuni passaggi dei romanzi proposti: “ La parola è un atto ha due - ha continuato il professore citando Mihail Mihailovič Bachtin -, un ponte gettato tra me e l’altro. Che ponte è stato gettato verso l’altro, ma ancora, che ponte sta gettando l’altro verso di me?” La risposta viene proprio da questi romanzi: dall’inquietante atmosfera de “La Strada” dove padre e figlio non sono le sole reciproche certezze in un mondo post atomico in cui impera il cannibalismo e la lotta per la sopravvivenza, alla separazione dalle proprie radici narrata dalla Bachmann per ripartire alla volta del viaggio della vita e infine alla pulsione epistemofilica, l’insaziabile fame di sapere oltre l’inganno delle apparenza, dell’anatomopatologo Quirke di Banville. Ma tutto questo peregrinare di pagina in pagina ha un senso: conseguire il grande obiettivo finale comunitario, la felicità. Una felicità che secondo Galimberti è paragonabile al risultato di “Kind of blue” di Miles Davis, dove l’improvvisazione dei musicisti jazz si risolve nel risultato comune di un capolavoro musicale.
Sembra che la bellezza che ci salverà debba arrivare dall’adattamento poetico all’instabilità, unito alla profondità del rapporto con l’altro fondato sulla parola. Una commistione che potrebbe anche risolvere l’atteggiamento con cui affrontare l’attuale crisi economica. Il professor Glost ha quindi mediato le tesi di Bodegar e Galimberti: “Dante dimostra come l’onestà del vissuto umano possa essere legata in maniera indissolubile al testo - ha spiegato il professore -; La poesia di fatto ci può salvare, ma proprio per questo dobbiamo ricordarci che non tutti siamo Dante però. questo significa che davanti alla crisi economica, non dobbiamo dimenticare le altre crisi che non prendiamo in considerazione, come la crisi del senso della vita o quella spirituale. La bellezza che deve intervenire è quindi quella che salverà il mondo dall’autodistruzione. Le arti e la poesia ci possono aiutare in questo senso”. Già perché le vie non sono molte come dice Italo Calvino: “Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”.

L'arca di Noè della biodiversità


Con il successo di tre ricerche pubblicate dalla rivista Science, il professor Paolo Ajmone Marsan dell'Università Cattolica di Piacenza ha svelato il patrimonio genetico bovino. Un successo che riporta l'Italia ai vertici della ricerca scientifica in campo agricolo. Il Pennivendolo ha intervistato il professor Marsan per il portale Cattolicanews.
http://www2.unicatt.it/pls/catnews/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=14665

Dentro la rete dei media

Sono passati 40 da quando, con una semplice telefonata, gli ascoltatori della radio divennero protagonisti delle trasmissioni. Quel giorno del 1969 venne sotterrato il seme del reality. Il Pennivendolo, per il portale Cattolicanews, ha assistito alla tavola rotonda organizzata dallo storico dei media Giorgio Simonelli che ha celebrato questo successo mediatico.
http://www2.unicatt.it/pls/catnews/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=14661

venerdì 1 maggio 2009

Il Dragone conquista il globo a suon di propaganda


La prima preoccupazione di un regime è l'acquisizione del controllo dei mezzi di comunicazione al fine di ottenere la manipolazione dell'opinione pubblica. Ma se a ciò aggiungiamo la potenza della diffusione satellitare, una notevole disponibilità di capitali e l'ambizione a entrare nel gotha dei network mondiali, cosa potrebbe succedere?
Senza stracciarsi le vesti dalla disperazione, bisogna sapere che in Cina sta avvenendo questo. Il Pennivendolo ne ha parlato con Beniamino Natale, direttore di Ansa Cina, direttamente da Pechino. A seguire il link del servizio pubblicato dal giornale online dell'Università Cattolica di Milano.

http://www.magcity.it/pls/unicatt/mag_gestion_cattnews.vedi_notizia?id_cattnewsT=8536