venerdì 27 marzo 2009

Una riflessione sulla democrazia del consenso


Per poter emettere un giudizio, l'uomo si affida a delle categorie che determinano il gradimento, o viceversa il disgusto, per l'oggetto preso in analsi. Potremmo partire da quest'introduzione tipicamente kantiana per avvicinarci al fenomeno evolutivo democratico, da rappresentativo a consensuale.

Posti davanti a fiumi di grafici e numeri, il relativismo politico della lettura dei dati ha fatto si che perfino la matematica possa diventare una vera e propria opinione. I numeri di sondaggi, anche i più autorevoli,vengono utlizzati come armi di persuasione di massa. Senza pudore nei salotti politici si legge lo stesso dato come successo o insuccesso. Non importa chi ha ragione o chi dice la verità, i numeri danno ragione a tutti e a nessuno, l'importante è sopraffarre momentaneamente l'avversario. Oppure: si lancia un'allarme, un'indagine registra una percezione di disagio e allora vi si pone rimedio. Gli esempi di questa pratica sono molteplici. Insomma, il relativismo numerico è il principio fondatore della democrazia del consenso.


L'immedesimazione dell'elettore nei panni del candidato è quindi diventato un concetto ormai obsoleto. Obama parla al popolo americano come fosse uno di loro ma fatica a reggere l'impatto dei giornalisti, Berlusconi veste i panni del presidente operaio e ferroviere, Veltroni sposò il motto "Si può fare". Personaggi diversi, obiettivo comune: la ricerca del consenso. Non esiste una programmaticità intellettuale, ma una pragmaticità continua che promette di soddisfare la pancia della sacca elettorale, il vecchio panem et circem di romana memoria.

La sana politica dovrebbe fondare le proprie radici elettorali all'interno di un più profondo terreno, quelo della fiducia, humus che garantisce il fiorire della Politica (con la P maiuscola). La Balena bianca è rimasta tra i piedi per 50 anni, il pci ha fatto opposizione per altrettanti, proprio fondando l'idea politica sul concetto di fiducia. Con tutte le sue pecche, quella fu una democrazia rappresentativa. Tangentopoli ha spazzato via tutto azzerando. E prioprio dall'anno zero che si è ripartiti alla ricerca del consenso.

Ecco dunque tornare d'utilità le vecchie categorie della critica del giudizio, quelle categorie estetiche che ci permettono di sancire ciò che è bene o ciò che è male. Qui si deve formare il cittadino. La stampa deve puntare su queste categorie. Non esprimendo semplicemente un parere preconcetto, bensì contribuendo alla costruzione di quelle categorie che potranno permettere all'elettorato una scelta accorta. Un esempio? Bè, la lettura dei dati. Non facciamola fare ai politici del consenso per poi berci il sermone. Insegnamo ai singoli i mezzi per leggere un sondaggio, sarà poi compito loro andare alle urne in coscienza delle loro categorie.

La pancia è percezione, la testa è realtà. L'invito, qualsiasi sia la scelta, è quello che il giudizio venga espresso con gli occhi dell'individuo e non secondo il motivo sovietico del "non ti preoccuapre se non capisci, a tutelarti ci penso io".

2 commenti:

  1. (per la cronaca, auryn981=Floriana)

    "Non esiste una programmaticità intellettuale, ma una pragmaticità continua che promette di soddisfare la pancia della sacca elettorale, il vecchio panem et circem di romana memoria".
    Penso che sia questa la frase che meglio riassume il principio generale della democrazia del consenso, di cui il "relativismo numerico" è solo un aspetto.
    Un altro aspetto sono le parole pronunciate dai politici: anche a quelle i cittadini dovrebbero imparare ad applicare le categorie kantiane del giudizio. Ai loro slogan, che riassumono le identità di parito. A come i politici e i partiti si esprimono verso le opposizioni, verso i sostenitori, verso i cittadini, verso gli esponenti politici di altre nazioni. Da come un politico parla e interagisce con gli altri si possono capire molte cose che aiutano a formulare un giudizio e una scelta di voto ragionata.
    I mezzi di informazione fanno già anche troppo bene il mestiere di fornire al cittadino tutti gli elementi su cui ragionare, subissandoli come fanno di numeri e parole.
    Sono d'accordo col fatto che la stampa dovrebbe non solo dare al cittadino elementi sparsi, ma anche aiutarlo a costruirsi le categorie che lo aiutino a fare una scelta ragionata. Forse però i giornalisti dovrebbero fare un'operazione ancor più profonda, e cioè "far venire la voglia" ai cittadini di fare una scelta ragionata. Stimolare il loro senso critico. Purtroppo non è affatto scontato che la "gente" VOGLIA usare il senso critico per fare le sue scelte politiche, e spesso si accontenta di fare la scelta più sbrigtiva, come se si trattasse di un fastidioso dovere.
    Ecco perchè poi a prevalere è il pragmatismo grossolano e non la programmaticità intellettuale. I cittadini devono riscoprire il proprio ruolo attivo, devono VOLER partecipare. Forse in questo anche la stampa può e deve fare qualcosa.
    Complimenti!

    Flo

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  2. Quoto in pieno.
    Ma proviamo un attimo a capire il vero motivo politico del relativismo numerico. Viviamo in un periodo storico nel quale la fiducia nella politica è ridotta al lumicino. L'Ideologia con la I maiuscola è una fiamma spenta da tempo. Siamo nell'era delle correnti di pensiero, zibaldoni pseudoideologici figli della banderuola.
    Cosa può fare la politica per riavvicinarsi al popolo? Nulla!
    Quindi passa al piano B: "fumo negli occhi".
    Inizia qui lo stordimento dell'opinione pubblica a suon di cifre, sondaggi, dati ufficiali, percentuali... Rimbalzano numeri impazziti di bocca in bocca. Impazziti perchè sempre esatti, a prescindere da che labbra li pronunci. Sempre esatti perchè levati dal contesto che li ha generati e quindi leggeri, maneggevoli, malleabili, adattabili ad ogni situazione.
    Calano onde di dati come fumo sull'alveare collettivo e stordiscono il "popolo ape" trasformandolo nel più politicamente utile "popolo bue".
    L'italiano, si sa, non è avvezzo alle statistiche, ha breve memoria storico/politica e vive di pancia e di cuore tutte le situazioni. Stordendolo di dati la politica riesce a non perdere potere, a mantenere la sua aura di autoreferenzialità e soprattutto a garantirsi l'alternanza di governo. Tutti hanno ragione, tutti hanno torto. Lasciano alla gente l'illusione di scegliere ciò che hanno già scelto a priori.

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