giovedì 8 dicembre 2011

Scrittura di frontiera, arare oltre i confini del dialogo


Sistemando il mio archivio, mi sono imbattuto in questo scritto che risale al novembre del 2008. Era un articolo di analisi sul concetto di confine, visto con gli occhi di chi bazzica il mondo della letteratura. Ci sono notizie che non invecchiano e questa penso sia una di quelle. Buona lettura:


Un taglio netto nella terra, un solco che si perde alle spalle del vomere che incide il suolo. Non c’è immagine migliore dell’aratro al lavoro per individuare il concetto di confine, un’astrazione che, da che esiste l’uomo, assolve il compito difficile e innato della delimitazione dello spazio. Uno spazio che non è solo misurabile, tutt’altro. La metafisica frontiera del pensiero, così come le Colonne d’Ercole confine ultimo della φύσις (la “natura”) aristotelica e della curiositas del mondo antico. L’umanità è cresciuta di pari passo con l’impellente necessità di delimitare, porre una frontiera ultima di proprietà e quindi di misura della stessa. Ma in questo flusso dal divenire continuo, nulla è per sempre. Il limes traianeo dell’impero romano è caduto, la cortina di ferro comunista pure, così come il muro di Berlino, icona della subdola separazione dell’uomo in seno all’ideologia, si è sgretolata sotto i colpi di piccone sferrati dalle stesse persone che si augurava di separare per sempre.


Ma il concetto di confine, accompagnato da quello di frontiera - differente nel particolare ma assai simile nel principio primo – può in qualche modo divenire metafora del luogo del dialogo per eccellenza? Se non in politica, dove sembra che la ragione ultima dell’idea di guerra si esaurisca proprio dentro alla questione di spartizione territoriale, sicuramente può esserlo in letteratura. Gerusalemme è stata luogo, più che simbolico, di rappresentazione di questa possibilità. In merito all’incontro Dialoghi italo-israeliani, Claudio Magris e Abraham Yehoshua davanti a una platea illustre, composta tra l’altro da Giorgio Napolitano e Shimon Peres, hanno disquisito delle proprie esperienza di uomini e scrittori posti davanti alla linea di confine. La cortina di filo spinato che, poco a est di Trieste, separava Magris dalla Jugoslavia di Tito e dal blocco stalinista, si è incontrata con la geografia a pelle di leopardo israeliana, sinonimo della travagliata esperienza di un popolo, quello ebraico, privo di confini e frontiere per eccellenza.
Per Magris la componente mitteleuropea si traduce in una tensione continua alla ricerca di se stessi, di un uomo cresciuto «in una terra di nessuno tra due frontiere, che ha reso sempre difficile ai suoi scrittori definire un’identità». Come per l’autore de Il mio Carso, Scipio Slapater, anche per Magris «quest’incertezza, questa appartenenza plurima è succhiata nel sangue», segno del trauma che questi “confini” travagliati hanno lasciato nella coscienza letteraria di scrittori friulani, Italo Svevo compreso. La campana ebraica suona invece un’altra musica. Se per i triestini è proprio il confine il problema, per la cultura ebraica il dramma si consuma nella diaspora, ovvero la mancanza assoluta degli stessi confini. Una fortuna, verrebbe da dire a caldo, ma per il popolo errante dai tempi di Abramo, il sogno di una terra promessa, fine ultimo del sionismo di Theodor Herzl, ha trovato compimento con Israele. Secoli di spostamenti e di una cultura “take-away”, dal 1948 hanno una base territoriale in cui riconoscersi. Per Yehoshua è il sionismo che ha dato a un popolo il significato di frontiera, ma è altrettanto paradossale il corso della storia: «In fondo, è simbolico che questo popolo, abituato ad attraversare con facilità tutte le frontiere, con altrettanta facilità sia stato radunato in un non luogo come Auschwitz». Ebrei cosmopoliti quindi, intellettualmente fertili, ma a che prezzo? Olocausto a parte, le vicende dello Stato d’Israele parlano da sole.


«Come sostiene Claudio Magris esiste da sempre un’identità di frontiera, così come esiste una letteratura di frontiera – spiega Predrag Matvejevič, scrittore e docente di Slavistica all’Università La Sapienza di Roma –; la speranza è che questa serva ad avvicinare e non ad allontanare». Nell’era dell’Europa unita e dell’affermazione dello Stato d’Israele, parlare di confini e frontiere potrebbe suonare anacronistico. Non è certo così. Concepire le frontiere solo come un ostacolo fisico è qualcosa di riduttivo se non ingenuo. Abbattute le dogane europee per gli stati dell’unione, dopo Maastricht, rimangono da saltare barriere ideologiche. «Affrontando le parole di frontiera e confine bisogna considerare che l’una è circoscritta alla concezione di spazio, l’altra intende una linea. Sono i confini che generano la maggior parte dei problemi, mentre la frontiera non è che una risultante di questa azione esercitata dal confine – spiega Matvejevič –. Le tipologie di confini e frontiere possono essere molteplici: statali, nazionali, politici, religiosi e soprattutto culturali. Sono questi quelli che generano maggiori preoccupazioni. Tacito aveva compreso appieno il problema e aveva individuato (nel suo trattato La Germania ndr) una frontiera ben precisa tra romani e germani e la definiva mutuo metu, una “mutua paura”. La stessa che noi, abitanti dell’Europa dell’est, abbiamo subito involontariamente sotto il dominio staliniano». Ma l’analisi dello scrittore croato si spinge oltre e inverte i ruoli. Se prima il terrore del diverso veniva indotto dalle dittature dell’est verso ovest, ora il problema è rovesciato. Gli scettici stanno ad occidente: «Dopo il crollo del muro di Berlino, molte barriere sono cadute – conclude Matvejevič –. È rimasto però qualcosa che divide l’Europa dall’altra Europa. Che cos’è? E qual è la sua alterità? Questo si riferisce a una frontiera di cui non siamo coscienti. Noi che veniamo dal regime sovietico vediamo un atteggiamento “euroscettico”. Anche verso la Polonia, che maggiormente si era opposta al blocco comunista. Dobbiamo prendere in viva considerazione questo fenomeno in vista dell’Europa di oggi e di domani, quella che esiste e quella che dovrebbe esistere».

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