mercoledì 15 aprile 2009

Il cinema kazako passa da una tazza di tè


Lo zucchero si deposita dolcemente sul fondo della tazza trasparente. Si può partire da questa immagine rallentata per parlare di Darezhan Omirbayev, perché il cinema kazako ha il sapore di un tè preso in compagnia di pochi intimi. In occasione della diciannovesima edizione del festival del cinema africano, d’Asia e America Latina, il casello di Porta Venezia a Milano è diventato punto d’incontro tra artisti, cineasti e pubblico, raccolti in un convivio in cui cinema e tè diventano i collanti per chiacchierate informali tra amici. Quest’anno il festival ha voluto rendere omaggio a uno degli esponenti più significativi della produzione cinematografica del Kazakistan, Darezhan Omirbayev.
François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol ed Eric Rohmer, si può così definire la patristica della nouvelle vague, ma chi l’avrebbe mai detto che anche il Kazakistan ha avuto la sua onda costruita all’Institute of Advanced Cinema Studies di Mosca? La scissione tra regia e sceneggiatura e la concezione del regista come vero e proprio scrittore di cinema alla stregua dei maestri francesi degli anni Cinquanta, costituiscono il paradigma per Omirbayev ponendolo all’apice di questa corrente innovatrice sviluppatasi verso la fine dell’era sovietica. I suoi lavori sono però permeati anche da una forte vena derivante dalla maniera minimalista di Robert Bresson che permette a Omirbayev di sfociare nella trasposizione cinematografica dei grandi capolavori della letteratura russa. Chouga, girato nel 2008, è quindi una nuova interpretazione di Anna Karenina di Tolstoy che permette di mescolare grandi tematiche che vanno dall’alienazione urbana (già affrontata in Killer del 1998), alla corruzione dell’era post sovietica.
Darezhan Omirbayev, davanti a una tazza di te tè kazako, si è raccontato. “Da bambino amavo disegnare e questo mi ha portato ad avvicinarmi alla realtà della cinematografia - dice il regista -. A tutti i bambini piace disegnare? Non credo. Nella mia classe eravamo solo in due e non è un caso che a scuola il disegno era visto come una cosa da poco, spesso sostituita con altre materie. Questa mia passione si è realizzata con la cinematografia, perché in fondo cos’è il cinema se non una serie di disegni sulla pellicola?”. Omirbayev è anche critico cinematografico, ma scavando in profondità scopriamo un cineasta che, prima di dedicarsi alla macchina da presa, ha avuto a che fare con ben altri interessi: “Quella del cinema è la realizzazione di un sogno, considerando che come mio padre sono laureato in matematica - racconta il Omirbayev - La decisione di dedicarmi alla cinematografia è venuta col tempo. La scuola di cinema era a Mosca, molto lontana dal Kazakistan, così mentre ancora mi dedicavo alla matematica avevo fatto della visione dei film il mio passatempo perché l’unica attrazione che c’era era quella di assistere alla proiezione delle pellicole dei film sovietici. Terminati gli studi in matematica però, per evitare l’arruolamento nell’esercito, mi sono trasferito a Mosca alla scuola di cinema”.
Pensare alla cinematografia sovietica come qualcosa di terribilmente angosciante e opprimente è, sotto certi punti di vista, un errore. Escludendo i filmati di regime e l’eventuale stretta censoria, è doveroso scostare l’immaginazione della cinematografia russa dalla fantozziana concezione de La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ejzenštejn. “Ai tempi dell’Urss la cinematografia era variegata e non c’era il monopolio distributivo di Hollywood - chiosa Omirbayev - così in Kazakistan proliferavano film italiani, iraniani e giapponesi per esempio, oltre che il cinema tradizionale Kazako. La mia produzione però si discosta dai dettami della tradizione. L’onda della mia generazione racconta i cambiamenti del paese dopo il distacco dall’Urss, una linea nuova e controtendenza”. Alla luce di ciò, non si può sorvolare che c’è un cordone sensibile che lega Omirbayev al cinema italiano. La tesi, con cui il cineasta kazako si è laureato alla scuola moscovita, è centrata sulla semiotica del cinema e ha per oggetto le teorie di Pasolini, Metz, Jakobson e Mitry. Proprio su Pierpaolo Pasolini, Omirbayev afferma: “Lo sento molto vicino come regista e, siccome sono molto appassionato di astri, siamo anche legati da un’affinità astrologica. Tuttavia, sotto il profilo della direzione abbiamo una visione differente dell’uso della musica e devo ammettere che i suoi ultimi film ho faticato a comprenderli. Resta comunque un maestro, tant’è che tuttora faccio vedere i suoi film ai miei allievi”. Il tempo del tè è passato e non rimane che posare il cucchiaino a lato della tazzina e gustarsi uno scorcio di Kazakistan attraverso l’obiettivo della macchina da presa di Darezhan Omirbayev.

(L'articolo è stato pubblicato dalla rivista italo-africana online www.assaman.info)

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